INNI OMERICI A cura di GIUSEPPE ZANETTO CASA EDITRICE: RIZZOLI

INNI OMERICI A cura di GIUSEPPE ZANETTO CASA EDITRICE: RIZZOLI

Tra gli Dei immortali (Teòi atanàtoi) e gli uomini mortali (àntropoi tanàtoi) per gli antichi Greci c’era un divario incolmabile, uno iato profondo e invalicabile. Inconcepibile, infatti, per gli Elleni poter paragonare la serena ed eterna vita degli abitanti dell’Olimpo con la misera, travagliata e limitata esistenza degli esseri umani.  

Molto difficile, quindi, per gli uomini risultava il poter comunicare con la Divinità e in effetti soltanto due erano le possibilità per avere una sorta di dialogo tra queste due realtà completamente opposte e praticamente inconciliabili: la prima, la più diffusa e praticabile, era rappresentata dal rito del sacrificio che i sacerdoti officiavano per ingraziarsi e ringraziare gli Dei. Ma esisteva anche una seconda modalità per gettare un ponte tra l’uomo e il divino e consisteva nel celebrare i Numi attraverso il canto. E così nacquero gli Inni sacri, che altro non erano se non componimenti creati con versi e musica. Di queste opere, logicamente, è arrivata fino a noi solo la parte poetica, poiché quella musicale, per ovvie ragioni, è andata quasi subito perduta.  E, tra tutti gli altri, gli Inni omerici sono quelli più conosciuti, racchiudendo in sé, inoltre, un elevato grado artistico.  

Gli Inni omerici vengono così denominati non perché siano stati composti da Omero, da tutti definito il più grande poeta greco, ma per lo stile e per la metrica usati, risultano molto simili ai versi dell’Iliade e dell’Odissea. In effetti gli autori di tali Inni, così come ci ragguaglia Giuseppe Zanetto, docente di Letteratura greca all’Università di Milano, nella sua ottima ed esaustiva introduzione, non sono mai stati individuati, ma sicuramente si trattava di aedi che proponevano questi loro canti nelle principali città sacre della Grecia, tra cui sicuramente possiamo annoverare quelle di Delfi e di Delo. Questi Inni venivano utilizzati spesso come introduzione agli agoni poetici, che rappresentavano delle autentiche gare artistiche tra vari poeti e che in quei tempi antichi (siamo nel sesto secolo avanti Cristo!), erano molto seguite dal pubblico.  

Gli Inni arrivati fino a noi sono trentatré, componimenti estremamente diseguali per estensione (si passa da pochi versi a testi di oltre cinquecento versi), ma che trattano tutti di alcuni aspetti della vita degli Dei e in particolare della loro nascita, dei loro sotterfugi amorosi, delle loro apparizioni agli esseri umani, il cui termine più corretto è “epifanie”.  I canti più completi, gli unici di cui si possa proporre una compiuta esegesi letteraria, sono l’Inno a Dioniso, quello dedicato a Ermes e poi l’Inno ad Apollo e quello a Venere. Quest’ultima opera è quella che io reputo la più bella in assoluto e che dovrebbe essere proposta agli studenti di ogni tipo di scuola come esempio compiuto di rara bellezza poetica. 

 E allora, per concludere, lasciamo la parola alla deliziosa levità dei primi versi dell’Inno a Venere, creazione poetica così lontana nel tempo, eppure così sorprendentemente vicina alla nostra sensibilità odierna: 

 << Musa, cantami le opere dell’aurea Afrodite, 

la dea di Cipro, che suscita dolce desiderio negli Dei 

e soggioga le razze degli uomini mortali, 

gli uccelli del cielo e tutte le specie animali…>>. 

ETTORE DONADIO 

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